Dario Laurenzi è stato intervistato da Manuela de Leonardis di Andy Magazine. Vi riportiamo per intero il contenuto dell’intervista.
E’ il fondatore della Laurenzi Consulting, leader nel settore della consulenza enogastronomica. Dall’ideazione allo studio del mercato, ogni dettaglio è studiato per garantire risultati da veri numeri uno.
Un sandwich di pastrami da Selfridges a Londra, gli gnocchi che faceva la nonna Enrica (uno dei rari – straordinari piatti – della nonna materna: c’erano anche le fettuccine fatte in casa e le zucchine o i peperoni ripieni di carne, poi il buio perché sua madre, la bisnonna Bianca – cuoca eccezionale – era gelosissima delle sue ricette), le scritte con il pennarello sulla specchiera di Balthazar a New York, con l’elenco dei crudi del giorno… per Dario Laurenzi (Roma 1966) – fondatore, nel 2004, della Laurenzi Consulting , società di consulenza enogastronomica – la memoria culinaria si nutre di ricordi, rafforzandosi attraverso l’immagine fotografica. Insieme all’architettura-arredo-design, all’abbigliamento vintage e al cinema in bianco e nero, è proprio la fotografia in movimento una delle sue passioni, mettendo per un attimo in secondo piano vino e cibo che, nel tempo, hanno delineato la sua professione.
Niente di meglio che affrontare l’argomento davanti alla tridimensionalità dei pachino sott’olio, abbinati a piccole mozzarelle di bufala affumicata con alici e ad una manciata di olive, spizzicando il pane (giustamente noto) del forno Roscioli e bevendo dell’ottimo champagne Legras & Haas. Con il vino la complicità è stata piuttosto tardiva, perché Dario fino alla post adolescenza era astemio, benché – ironia della sorte – suo padre fosse rappresentante di vini. “Ero, come tanti altri, un universitario che si pagava gli studi e andai a lavorare all’enoteca Costantini, dove sono rimasto per nove anni, facendo di tutto, dalle consegne fino a dirigere l’attività. Il momento fondamentale fu quando Alberto, il direttore, mi portò ad una degustazione di vini, ricordo ancora che bevvi un Nebbiolo Occhetti Riserva Prunotto ’78 e lì è scattato il colpo di fulmine.”, racconta. “Tuttora il vino mi accompagna: ho una bellissima cantina nel mio ufficio. Ma non c’è solo il vino. Negli anni sono cresciuto, specializzandomi nel campo dell’ospitalità e della ristorazione e, soprattutto, nella creazione di format e concept che danno grande spazio alla fantasia.”
Accennavi all’importanza della casualità fortuita di esserti trovato – spesso – al momento giusto nel posto giusto…
La prima è stata quando, a diciannove anni, mi sono ritrovato a lavorare come capo cantiniere da Costantini. Era il momento in cui è scoppiato il boom del vino, diventando evento, moda e tendenza. Subito dopo seguii dei corsi di formazione, diventando abbastanza bravo, tanto che ebbi una nomination dall’Associazione Italiana Sommelier come miglior sommelier all’Oscar del Vino. Quando li chiamai per ringraziarli e confermare la mia presenza alla premiazione, ritenni opportuno avvertirli che, però, non avevo mai fatto il corso da sommelier! Sono autodidatta, a formarmi è stato il direttore dell’enoteca, ma anche la mia curiosità. Ho sempre aperto quelle porte che non si dovrebbero mai aprire, proprio per vedere la realtà oltre il racconto. La seconda fortuna è stata quando, quindici anni fa, con alcuni amici fui coinvolto nell’avventura dell’Antico Arco al Gianicolo, primo ristorante romano “pop-gourmet”, dove veniva servita anche la pasta cacio e pepe, la carbonara o l’amatriciana. All’epoca sembrava un abbinamento un po’ strano, perché prerogativa del ristorante gourmet era, piuttosto, quella del tagliolino mazzancolle, anice stellato e asparagi. Un’altra occasione è stata quella di essere chiamato per aiutare ad ideare – all’epoca la voce consulente non era molto usata – una proprietà in dubbio davanti ad una grande metratura, in una location particolarmente complessa, per inventare nella capitale qualcosa che non c’era: ‘Gusto.
Di ‘Gusto, tra l’altro, sei stato direttore dal ’99 al 2004.
Dopo un anno di progettazione abbiamo costruito la macchina, che era così bella che sarebbe stato un peccato non dirigerla. Intanto per la prima volta a Roma, forse addirittura in Italia, l’architetto – Roberto Liorni – ha avuto un ruolo importante nella realizzazione di un locale di ristorazione. E’ stato un lavoro d’equipe, con la sua partecipazione, accanto a quella dei proprietari Alessandro Tudini e, in particolare, della moglie Alessandra Marino, persona creativa e coraggiosa. Poi c’ero io, il tecnico, colui che doveva rendere il tutto fattibile aprendo una finestra nuova sul mondo del food. L’idea era quella di un polifunzionale, un locale in cui entrare e, in base al portafoglio, decidere se andare al wine bar e mangiare al bistrot, al ristorante fusion, in pizzeria o, magari, passare al negozio e acquistare un bicchiere. Il mio difficile compito è stato quello di riuscire a far sì che non fosse un posto di tendenza, perché il dramma dei locali è proprio questo. Il grande lavoro, per sei anni, è stato quello di riempire di contenuti quella meravigliosa cornice. Cosa che ho fatto puntando su food e prodotti di qualità, pubblicazioni, attenzione al servizio… il tutto in una macchina da guerra che, mediamente, faceva oltre mille coperti al giorno.
Tra le tue attività, c’è anche quella di docente di Management della Ristorazione nelle scuole del Gambero Rosso di Roma. Qual è, secondo te, la regola fondamentale del buon ristoratore?
In questi ultimi anni tutti credono che la ristorazione sia una nuova forma di business e, nello stesso tempo, un modo per risolvere i problemi sociali. Pensano che avere un ristorante sia “figo”, si conosce tanta gente, per non parlare dell’idea del guadagno facile! Io cerco di dissuaderli, dicendo che devono essere pronti a sacrificare la propria vita, lavorando anche 14 ore al giorno, dalla spesa al mercato a tutto il resto. Qualcuno è convinto che basti indossare giacca e cravatta e intrattenere gli ospiti. No, non è così, almeno non subito. Ci deve essere anche passione e, soprattutto, la voglia di fare la vecchia zia quando i nipoti la vanno a trovare, ovvero saper coccolare i propri clienti. Quello dell’imprenditoria nell’ambito del food, invece è tutt’altra cosa. Bisogna avere un’idea molto chiara, un progetto, lo studio del mercato, gestione, costi, investimenti, conoscere le tendenze…
Quanto è importante, secondo te, la componente golosità nell’esperienza sensoriale del cibo?
In molti casi i piatti sono solo puro esercizio di stile, fatti per auto celebrare la bravura dei grandi cuochi, che ritengo veri artisti, senza però pensare al cliente. Per essere mangiato, il piatto deve essere goloso, oppure è intellettuale. La pasticceria, per esempio, è golosa. Invece, è intellettuale quando si passa dal sapore dolce al salato, al piccante, all’acido… e nel palato si ha un’esplosione caleidoscopia sempre rispettando il prodotto.
Tu cucini?
Adoro cucinare, soprattutto per gli altri. E’ il momento più bello della giornata, anche quando torno a casa stanchissimo, vado in cucina, apro il frigo e unisco una serie di ingredienti. Cucinare mi dà un grande senso di tranquillità e rilassatezza. Parto dalla materia, che trovo nei miei viaggi, nelle passeggiate, nei mercati. Adoro, in particolare, giocare e sfidarmi con i processi di lievitazione. Tra gli amici è famosa la mia pizza: uso solo farine naturali ed al massimo due grammi di lievito, quindi è altamente digeribile e poi la cuocio in teglia al forno.
Invece, a livello di tradizione familiare?
E’ stato mio padre Alberto, che ora non c’è più, a lasciarmi l’incarico della Pizza di Pasqua. Nella nostra famiglia tutti i primi figli, partendo dal bisnonno fino ad arrivare a me, a Pasqua fanno la pizza che, essendo originari delle Marche, è al formaggio. La ricetta era stata tramandata di generazione in generazione, ma ho avuto la sfrontatezza, non essendo troppo convinto sulla sua lievitazione, di portarla a vedere a quello che reputo il più grande lievitista d’Italia, Gabriele Bonci. Effettivamente, lui mi ha confermato che c’erano problemi ingegneristici. L’impasto pesava troppo per la quantità del lievito, per cui la bolla schiacciata sul fondo che vedevo nelle pizze di mio padre, era dovuta proprio a questo. Ho l’unico rammarico di non avergliela potuta far assaggiare, ma sono convinto che gli sarebbe piaciuta. In fondo gli ingredienti sono gli stessi, ho solo modificato un pochino la ricetta. Il passaggio generazionale sta anche nell’evoluzione rispetto alla tradizione. Lo scorso anno sono arrivato a farne venticinque, che ho regalato a tutta la famiglia, proprio come faceva papà, ma ho allargato il giro includendo anche gli amici.
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Intervista: Manuela De Leonardis
Luogo: Roma Foto: Ernesto Tedeschi
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